La recentissima pubblicazione del “Rapporto mondiale sui salari 2025-2026” curato dall’International Labour Organization (ILO) ha riattivato il dibattito sulla stagnazione retributiva dei lavoratori italiani: dal 2008 ad oggi in nessun altro principale Paese del mondo si è osservata una perdita di potere d’acquisto dei salari similare a quella italiana: -8,7%, a fronte del +5% francese o del +15% tedesco. Sono note anche le pessime performance della produttività del lavoro: tra il 2003 e il 2023 questo valore è cresciuto soltanto del 2,5%, ben lontano dal +9,7% della Francia e dal +16% della Germania (dati Eurostat).

Il 40esimo anniversario dell’assassinio del professor Ezio Tarantelli, ucciso il 27 marzo 1985 dalla spietata ideologia brigatista dopo una lezione in Sapienza (Roma), dove insegnava Economia Politica, è l’occasione per condividere qualche riflessione sul nostro mercato del lavoro oltre la sterile contrapposizione tra chi celebra il record del numero degli occupati (24 milioni 222mila, ultimo dato ISTAT) e chi, invece, osserva che a una tale quantità di lavoro non è associata una altrettanto soddisfacente qualità, riferendosi al tasso di occupazione femminile, a quello dei giovani e, come è stato ricordato, al contenimento dei redditi di lavoro.

Il professor Tarantelli ha scritto saggi magistrali di inquadramento micro e macroeconomico del lavoro e delle relazioni industriali. Consultando l’archivio dei suoi scritti nel sito della Fondazione promossa dalla CISL e a lui dedicata, si dispone di migliaia di pagine sul rapporto tra salari e inflazione, sulla disoccupazione giovanile, sui cambiamenti tecnologici, sul ruolo del sindacato. Non è attività (solo) per archivisti: rileggendo questi contributi, meglio si comprende la situazione di oggi.

Se si analizzano le serie storiche sui redditi di lavoro, si osservano i primi segnali di deflazione a partire dall’inizio degli anni Novanta. Una stagione complessa, subito successiva alla correzione degli squilibri generati dal perverso meccanismo di interdipendenza tra incremento del costo della vita e aumento dei salari (c.d. scala mobile). Quegli automatismi furono superati grazie al coraggio di Tarantelli, che rigettò la dottrina (più politica che scientifica) del «salario come variabile indipendente» e dimostrò che la scala mobile non funzionava come salvaguardia del potere d’acquisto dei salari. Anzi, era vero il contrario, seppure contro-intuitivo: per difendere il valore reale delle retribuzioni, era necessario fermarne la crescita garantita dalla legge. Il segretario generale della CISL, Pierre Carniti, comprese che le idee di quel giovane economista, per quanto “impopuliste” (ma certamente popolari, nel senso che erano per il bene dei lavoratori italiani), erano fondate, spiegavano meglio di qualsiasi slogan ideologico cosa stesse accadendo. Furono quindi seguiti i suggerimenti di Tarantelli, che per questo fu ucciso dalle Brigate Rosse.

Nei primi anni del decennio successivo i problemi erano diversi, ma di uguale caratura: occorreva mettere in sicurezza il bilancio dello Stato per conformarsi ai parametri del Trattato di Maastricht ed entrare da subito nella moneta unica europea. Come fare? E’ stato lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, premier di allora e protagonista del Protocollo tra Governo e parti sociali del 23 luglio 1993, a confidare di avere seguito, ancora una volta, le intuizioni dell’amico Ezio Tarantelli.

In effetti, nell’accordo del 1993 si realizzò quel meccanismo di partecipazione dei sindacati alle decisioni di politica economica più volte suggerito nei saggi del fondatore dell’ISEL (Istituto di Studi ed Economia del Lavoro). A lui si deve anche l’oggetto principale del confronto: la determinazione in anticipo dell’inflazione (c.d. inflazione programmata). Addirittura i titoli dei capitoli del corposo accordo si richiamano agli scritti di Tarantelli, che aveva teorizzato la fondatezza dello scambio tra contenimento dei salari e apertura del Governo al confronto in materia di politica dei redditi e dell’occupazione, politiche del lavoro e sostegno al sistema produttivo.
Sbaglia chi oggi accusa i sindacati di non avere conseguito i risultati sperati in materia di espansione degli stipendi: l’obiettivo dell’accordo del 1993 era esattamente il contrario e, stando ai già citati dati, è stato pienamente raggiunto. Sono invece oggetto di confronto scientifico le conseguenze della parte dell’accordo che Tarantelli avrebbe compreso subito essere la più delicata: la ridefinizione degli assetti contrattuali (capitolo 2) per non scaricare solo sui lavoratori i costi del riordino dei conti dello Stato. Il professore di Economia politica immaginava un controbilanciamento della centralizzazione contrattuale finalizzata alla stabilità macroeconomica per il tramite di una convinta diffusione del decentramento contrattuale volto ad incrementare i salari nelle aziende più produttive e competitive.

Il mondo di oggi è molto diverso da quello degni anni Ottanta e degli anni Novanta. E’ di tutta evidenza, come ha osservato qualche giorno fa Mario Draghi in audizione al Senato, che quel che serve non è più la moderazione salariale, bensì la crescita dei redditi, per incrementare i consumi, riattivare la domanda interna, stimolare la crescita delle imprese e delle famiglie (anche in senso demografico). A 40 anni dalle sue intuizioni, occorre perciò completare il disegno di Tarantelli e finalmente realizzare il capitolo incompiuto del Protocollo: scommettere sulla partecipazione dei lavoratori a livello aziendale per incrementare i salari medi e mediani (altro che il salario minimo!). Come nel 1993, anche oggi è, questa, materia delle parti sociali, non a disposizione di alcun intervento orizzontale dello Stato. Ha ragione chi segnala l’urgenza di un nuovo accordo interconfederale per rilanciare la contrattazione di secondo livello, attivare l’intelligenza di prossimità delle relazioni industriali, permettere la compensazione della “scomodità” del lavoro (trattamenti diversificati per le posizioni di lavoro che non possono godere di smartworking e settimana corta), affermare un moderno diritto alla formazione continua. Nel solco dell’insegnamento di Tarantelli, la sfida è quella di passare da una politica di appiattimento dei redditi in ragione di un anacronistico egualitarismo del salario ancora una volta inteso come variabile indipendente, a una politica per la crescita delle retribuzioni per il tramite della partecipazione dei lavoratori alla gestione, agli utili e ai risultati delle imprese.

Emmanuele Massagli
Presidente della Fondazione Ezio Tarantelli