Un Primo Maggio di Speranza e di Futuro

di Giuseppe Gallo – Presidente Fondazione Ezio Tarantelli

La pandemia più che ad una guerra è simile ad un’Apocalisse perché alza il velo su molti dilemmi, rimossi, accantonati, distorti che hanno a che fare con i valori, il senso, i fini dei nostri modelli di economia, di società, di convivenza, di futuro. In fondo le battaglie escatologiche dell’Apocalisse mettono in scena le grandi alternative sulle quali si decide il senso ed il fine delle nostre vite. La pandemia, in una dimensione secolarizzata, non è da meno.

Il primo dilemma riguarda l’origine della pandemia. È un meteorite che, uscito dall’orbita ha colpito la a Terra? Un evento estraneo, casuale, irripetibile o un fenomeno, come sostengono epidemiologi e naturalisti, che ha relazioni molto strette col nostro modello di crescita che depreda la Terra e distrugge gli ecosistemi, determinando contiguità ed interazioni fisiche ed alimentari tra animali selvatici portatori di virus ed esseri umani?

Lo Stato, il bilancio pubblico, la dimensione collettiva sono stati, repentinamente, richiamati dalla pandemia alla centralità demiurgica dell’unico possibile solutore della crisi. Dopo quarant’anni di retorica ideologica, grottesca, sguaiata e celebrativa dei poteri autoregolativi ed autogenerativi del mercato, con allegata diffida allo Stato dall’interferire, unita alla sbrigativa sollecitazione a privatizzare tutto il privatizzabile (purché profittevole), la pandemia dice clamorosamente che il re è nudo ( non ha neppure un Piano B!) ed invoca l’intervento totale dello Stato (sussidi, sostegni alla liquidità, garanzie, prestiti, moratorie fiscali, contributive, bancarie, quasi un novello, estremo giubileo di assunzione dei debiti privati) come il povero mendicante tremante che invocava il mantello protettivo di San Martino!

E il welfare? Non doveva essere oggetto (e in parte lo è stato) di tagli lineari, ridimensionamento, privatizzazioni a partire dalla sanità per guadagnare margini competitivi? Oggi la pandemia dice esattamente il contrario: chi ha un sistema sanitario solido, articolato, con margini dimensionali adeguati anche alle emergenze riduce i tempi del lock down o non ricorre al lock down (che riduce di 3 punti percentuali per ogni mese il PIL annuo). Il welfare è, pertanto, un fondamentale fattore competitivo!

Analogo capovolgimento per le competenze, per il rigore scientifico, i modelli econometrici, le previsioni a lungo termine, le analisi fondamentali svilaneggiate e dileggiate perché incompatibili con i 140 caratteri di un tweet o con l’acefala affabulazione mediatica. Oggi siamo sommersi da statistiche, tendenze, curve, diagrammi, previsioni, ipotesi, verifiche e, ciò che più conta, nessuna decisione viene assunta dal Governo (o dalle Regioni) senza la certificazione della “Scienza”, ovvero delle competenze che, nei loro ambiti conoscitivi, dovrebbero sempre far da supporto alle strategie di chi rappresenta e gestisce il bene comune.

Ma il risarcimento più profondo il dramma pandemico lo ha riservato al lavoro, in tutte le sue dimensioni, in tutte le sue forme giuridiche e professionali, al lavoro in quanto tale. Nel momento in cui attraverso il lock down ed il distanziamento sociale la pandemia ha sferrato l’attacco al cuore non solo ai sistemi produttivi ma al “politikòn zoon”, l’uomo di Aristotele come animale sociale nella sua essenza; alla “persona” di Maritain, di Mounier, di Levinas che non è soltanto “in relazione” ma è ontologicamente “relazione”, allora il lavoro è apparso a tutti nella sua nitida, luminosa potenza antropologica, dal lavoro eroico dei medici e degli infermieri che hanno compensato con slanci di sconvolgente generosità, pagati sino alla morte, i limiti di un sistema sanitario impari al dilagare del virus, sino ai lavori non meno essenziali dei migranti stagionali che lavorano la terra, talora in condizioni servili, che solo ora si trova il coraggio (forse) di regolarizzare per timore di ulteriore diffusione del contagio. Dal lavoro degli scienziati ai lavori di chi ha continuato a rifornire le nostre vite dei beni e dei servizi necessari. Dal lavoro dei tecnologi al lavoro di chi ha immediatamente colto quelle (sottoutilizzate) opportunità, dallo smart working, al telelavoro, alla formazione scolastica e professionale a distanza, per dare continuità all’impegno produttivo e sociale.

In una dimensione di integrazione solidale che la pandemia, togliendo tutti i veli e gli inutili orpelli al fatuo ed apparente modernismo, ha fatto emergere e che fa di un popolo una comunità.

Per queste ragioni, che la pandemia riporta alla loro essenziale, nuda legittimità, il popolo del lavoro esige dignità, riconoscimento, rappresentanza, partecipazione.

Per continuare il confronto col Governo che ha condotto ai due Accordi del 14 marzo e del 23 aprile, decisivi per tutelare, nelle forme più efficaci, la salute e la sicurezza dei lavoratori e consentire la ripresa produttiva.

Per rifondare un modello di sviluppo e di società ormai giunto al capolinea storico, nel nome di un mondo riconciliato con la natura, dell’unione solidale degli Stati, della cooperazione fraterna e cosmopolita fra gli uomini.

È questo il messaggio dirompente che risuona in questo primo maggio atipico ed irrituale, in questa intensa e silenziosa festa delle donne e degli uomini del lavoro, memore di una storia gloriosa di leghe operaie e bracciantili, di associazioni di mutuo soccorso, di grandi organizzazioni sindacali, tutte unite in una storia di slanci, di impegno e di lotte per un bene comune fatto di sviluppo ambientalmente sostenibile, di giustizia sociale, di democrazia partecipativa diffusa che ha ancora molto da dire e da offrire nel drammatico, irrisolto travaglio del nostro tempo.